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IL CARD. TETTAMANZI APRE IL 4° CONVEGNO ECCLESIALE : "NON PARLIAMO DI SPERANZA MA CON SPERANZA" Vedi anche:
16/10/2006
Il convegno di Verona deve guardare alla speranza come “stile virtuoso - come anima, clima interiore, spirito profondo - prima ancora che come contenuto”. L’invito che, in apertura del decennale appuntamento ecclesiale, il cardinale Dionigi Tettamanzi ha rivolto ai 2.700 partecipanti è stato dunque a parlare non solo “di” speranza, ma “con” speranza.
L’arcivescovo di Milano, che è anche presidente del comitato preparatorio all’evento, ha voluto inizialmente salutare il segretario generale della Cei, il vescovo Giuseppe Betori, assente perché convalescente dopo una delicata operazione. Il presule lombardo si è detto rassicurato dalle “confortanti notizie sul suo rapido e pieno ristabilimento”.Poi ha voluto ricordare il vescovo di Monreale, Cataldo Naro, morto improvvisamente nei giorni scorsi.
Il cardinale ha collocato le giornate scaligere nel solco della “consegna strategica alla Chiesa e al mondo” che è venuta dal Concilio Vaticano II.
Poi è passato a definire la speranza come stile virtuoso, che è “parte essenziale e integrante del realismo cristiano”. Il porporato ha posto sotto il segno della fiducia anche gli innegabili “mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell’attuale momento storico”. Davanti ad essi “tutti, grazie alla presenza indefettibile di Cristo Signore e del suo Spirito nella storia di ogni tempo”, possiamo e dobbiamo riconoscere che la speranza non è solo un desiderio o un sogno o una promessa, non riguarda unicamente il domani, ma è una realtà molto concreta e attuale, che non abbandona mai la nostra terra: le persone, le famiglie, le comunità, l’umanità intera, soprattutto la Chiesa del Signore”. Da questo atteggiamento derivano uno sguardo e un cuore evangelici che permettono di vedere e godere del “numero incalcolabile di semi e germi e frutti e opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chiese e nella nostra società”. Tettamanzi si è poi soffermato su tre cammini in corso nella Chiesa italiana. Il primo “è quello di una maturazione sempre più chiara e forte della coscienza della Chiesa circa la sua coscienza evangelizzatrice”.
Questa sua imprescindibile missione - vero e proprio  “caso serio” della Chiesa - sta vivendo oggi “una stagione di singolare urgenza e indilazionabilità”, nella quale per il cardinale “registriamo una più diffusa ed esplicita consapevolezza della ‘distanza’ (nel senso di estraneità e/o antitesi) che nel nostro contesto socio-culturale e insieme ecclesiale esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna contemporanea”. Più che della distanza, ha sottolineato, però, la preoccupazione che ci dovrebbe essere per la “differenza”, per la “specificità” della fede cristiana. “Inserendoci nell’orizzonte del convegno, diciamo: siamo chiamati a custodire, ossia conservare, vivere e rilanciare l’originalità, di più la novità, unica e universale, della speranza cristiana, il Dna cristiano della speranza”. Essa è Cristo. Va vissuta in una prospettiva escatologica, che non mette semplicemente in questione “la fine, la conclusione della vita, ma il fine, il senso o logos della vita dell’uomo”. Infine, la speranza in Cristo “genera un rinnovato pensiero antropologico”. Coinvolge l’uomo nella sua “totalità e radicalità”. Sia per ciò che riguarda la cultura “alta” sia per quella che “contagia e modula ogni persona e ogni gruppo sociale nella loro concretezza quotidiana”.
Il cristianesimo con la novità dei suoi contenuti può formare una rinnovata “figura antropologica sotto il segno della speranza” che coinvolga “inizio e termine della vita, cura delle relazioni quotidiane, qualità del rapporto sociale, educazione e trasmissione dei valori, sollecitudine verso il bisogno, modi della cittadinanza e della legalità, figure della convivenza tra le religioni, le culture e i popoli tutti”. Insomma un “sapere della speranza” da cui potrebbe “incominciare una seconda fase del progetto culturale”. Il secondo cammino è improntato alla maturazione della “coscienza e della prassi della comunione ecclesiale”.
Essa è dono di Dio. Ha una modulazione antropologica e sociale e non può non portare a “forme di vera e propria corresponsabilità”. E’ necessario, poi, “sviluppare una più ampia e profonda opera formativa dei laici”.
Infine, il cuore del convegno, i cammini della testimonianza cristiana. Essa è generata e sostenta dalla fede nel Risorto. Punta come specifico al vissuto esistenziale ed è essenzialmente “coerenza con la grazia e le responsabilità che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall’obbedienza alla sua parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino”.
Il porporato ha concluso con una citazione del martire sant’Ignazio di Antiochia: “Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. E’ meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo”.

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