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DALLA TRADIZIONE LA CULTURA CHE GENERA SPERANZA

“Come può un uomo del nostro tempo, più di Duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento? E com’è possibile verificare con  ragioni adeguate il fatto che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora nel presente?”.

Questi affascinanti interrogativi hanno aperto oggi a Verona la relazione di Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia a Bari, dedicata alla presentazione dell’ambito di discussione sulla Tradizione. Le due domande riguardano tutti gli uomini di tutte le epoche. Oggi, però, “si fa molta fatica a comprendere la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente o archeologicamente, oppure – come nella maggioranza dei casi – qualcosa che si deve ‘aggiornare’ o superare in virtù dell’idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe reinterpretato il messaggio evangelico”. Di fronte alla trasmissione della fede, che è un dono, il rischio è di dare questa evidenza per scontata “considerala come una premessa ovvia e definitivamente acquisita, per poi passare subito a chiederci cosa dobbiamo fare o quali conseguenze occorre tirare.
 
Con la latente illusione di poterci impadronire noi, e addirittura di poter riprodurre noi, con le nostre strategie e i nostri buoni progetti, la presenza irriducibile dell’essere e la novità sorprendente della salvezza”. Rischi ulteriori sono il relegare questa dinamica nel passato, senza vederne il collegamento con il presente.
 
Si vive come staccati da ciò che ci ha preceduto. Nei luoghi dove si produce la cultura odierna, cioè libri, letteratura, mass media – ha spiegato il docente -  passa un’idea di uomo “per il quale la tradizione rappresenterebbe un retaggio di cui liberarsi, come si farebbe con un macigno che impedisse la libertà di movimento”. Lo studioso del pensiero ha poi sottolineato come importante nella dinamica educativa sia l’autorità da cui essa proviene (esenziale è in questo la famiglia).
 
Chi viene detto un’autorità , però, lo è per “il suo essere testimone”. “Ma la sua testimonianza non è qualcosa che si esaurisca nella sua persona, bensì è qualcosa di oggettivo, un ideale che anche il testimone è chiamato a riconoscere come autorevole per sé”. Di qui il passaggio alla verità e alla sua verifica critica. Contrapponendosi al relativismo, lo studioso ha sottolineato che “se si sente affermare sempre più diffusamente che il prezzo del dialogo con chi proviene da una tradizione diversa dalla nostra sarebbe quello di elidere o censurare il nostro volto, è invece proprio andando al fondo della coscienza di sé che si può incontrare veramente l’altro”. In questo senso “puntare a ciò che unisce rispetto a ciò che divide non vuol dire affatto ridurre il cristianesimo a un’indistinta e confusa religiosità o a un fideismo sentimentale per poterlo unificare con altre forme e tradizioni religiose; piuttosto significa verificare tutto alla luce di quei criteri di ragionevolezza e di realismo che condividiamo con tutti gli uomini e che ciascuno può scoprire nella sua esperienza, a patto di liberarsi da quei pregiudizi e da quelle interpretazioni che non corrispondono alle esigenze della vita e che spesso rischiano addirittura di negarle”. Insomma la significatività si gioca “dentro l’impatto con la realtà di ogni giorno: il lavoro e la famiglia, la politica e il tempo libero, l’economia e la scienza.
 
E’ questa la testimonianza incessante che ci proviene dalla nostra tradizione. Basta leggere la Divina Commedia o guardare le cattedrali delle nostre città, considerare come sono nati gli ospedali o le casse di mutuo soccorso, un certo gusto per la bellezza artistica  e la passione per il progresso delle conoscenze, un’attenzione amorosa alla realtà intera, dovuta al riconoscimento potente  che la realtà è abitata da un significato presente, per cui vale la pena esserci, lavorare, offrire la propria vita”.
 
Lo studioso ha infine guardato a tre luoghi di trasmissione della fede, la catechesi, la comunicazione sociale e il mondo della scuola e dell’università. Lo studioso ha concluso sottolineando il ruolo educativo alla criticità della scuola cattolica, che è ben lungi dall’essere “indottrinamento confessionale”, perché tale educazione “non solo non esclude un’esperienza di appartenenza alla nostra tradizione, ma addirittura la richiede”.

   Esposito.doc

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